La storia di un lago che si sta trasformando in un deserto di sale, quella di una famiglia e di un vuoto che si sente. Per la giovane fotografa iraniana Solmaz Daryani l’evoluzione di un paesaggio si legge negli occhi di chi ci vive
Un territorio punteggiato da navi relitto, ormeggiate su una distesa di terra e sale; attività dismesse che ricordano gli anni d’oro del turismo; gruppetti di bambini che giocano ai pirati a bordo di barche abbandonate. Negli scatti di Solmaz Daryani manca qualcosa, c’è un vuoto nelle sue immagini, qualcosa che c’è stato e di cui ora si sente comunque la presenza, qualcosa che era di tutti e sembra essere stato omesso. In quelle foto manca l’acqua, che definiva il paesaggio e scandiva la vita degli abitanti di un luogo sospeso nel nord ovest dell’Iran, il lago Urmia, un tempo il secondo bacino salato più grande del mondo, un angolo nascosto del pianeta che dava da vivere, con il turismo, a migliaia di persone.
Il progetto The Eyes of Earth di Daryani racconta quel vuoto creato dalla scomparsa dell’acqua nel paesaggio e nella vita della gente del luogo attraverso la storia della sua famiglia, originaria di Sharafkhaneh, un villaggio sulle sponde iraniane dell’Urmia. Ha iniziato a documentarne le evoluzioni nel 2014, quando il livello aveva raggiunto i minimi storici, poi ha continuato a seguirne le fasi per sensibilizzare l’opinione pubblica sulla crisi idrica in Iran e sugli effetti devastanti dovuti al malgoverno delle risorse e all’espansione del settore agricolo, che dal 1972 hanno portato il lago a perdere l’88% di estensione e l’80% del suo volume.
Negli occhi di Daryani c’è un vuoto, tra i ricordi dell’infanzia passata a Sharafkhaneh, il piccolo borgo che ha plasmato la sua identità, e il deserto di oggi. Lo stesso vuoto che si sente davanti agli scatti del progetto, in cui l’artista ha affiancato foto d’epoca, ricche di vita, ai paesaggi interrotti ripresi negli ultimi anni, in cui niente è più come una volta. Quel vuoto Daryani lo racconta con tutto l’amore possibile, quello che spesso, solo i luoghi sanno lasciarci addosso.
The Eyes of Earth, gli occhi della terra. Come mai ha scelto questo titolo per il suo progetto? È strano da raccontare, ma dopo due anni che avevo iniziato il progetto non avevo ancora trovato un nome, volevo sceglierne uno che fosse davvero rilevante ai fini della mia storia, che fosse in relazione con le persone che vivono e hanno vissuto sul lago, ma anche con l’ambiente. L’ho trovato in una citazione di Henry David Thoreau, non poteva essere più mia, dice che “un lago è l’occhio della terra, guardandoci dentro l’osservatore misura la profondità della propria natura”. Quella frase parlava proprio a me perché quel lago custodisce i più bei momenti della mia vita, della mia famiglia, dei miei nonni.
Il paesaggio ci parla, lì c’è la nostra identità. Non è solo un corpo d’acqua, contiene le memorie di generazioni e generazioni. Ricordo il lago da quando ricordo me stessa, da quando respiro e cammino
In Iran da ragazzine non avevamo molto da fare, specialmente nella mia generazione, non potevamo uscire insieme a giocare. Anche da adolescente non era molto “normale” andare da sola nella foresta, ad esempio. Nella mia classe, dove c’erano una quarantina di alunne, io ero l’unica che aveva la libertà di gironzolare nel paese di mia nonna, perché tutti la conoscevano. Potevo prendere la bici, un libro e andare a leggere sotto un albero, nuotare nel lago da sola. Questo mi ha dato molta libertà, che ha plasmato la mia identità.
Forse quel lago, per il resto del pianeta, è solo un piccolo puntino nella mappa del mondo, ma per me è tutto ciò che sono oggi
Com’è la situazione oggi? Qualche giorno fa sono tornata a Sharafkhaneh, il villaggio di mia nonna, perché ero nel sud del Paese a scattare un servizio per il New York Times. Sono andata a passeggiare in spiaggia e il lago non c’era, non c’era l’acqua a bagnarmi i piedi, bisogna camminare per chilometri per trovarla. Questo è stato uno degli anni peggiori nell’ultimo mezzo secolo, tanto che le proteste per la crisi idrica sono riprese in molte aree del Paese. L’estate secca e molto calda ha prosciugato anche la poca acqua che c’era negli ultimi anni, nonostante i programmi messi in atto dal governo avessero contribuito ad arginare l’emergenza. “Non sapremo che acqua dare da bere alle persone quest’inverno”, così mi ha detto un amico che lavora nell’amministrazione. Le persone sono scioccate, però non ammettono che questa situazione si è creata anche a causa loro. Se devi modernizzare il sistema di irrigazione del giardino per evitare di consumare troppa acqua lo fai. Il punto è che molti non si prendono le proprie responsabilità e sappiamo che circa il 90% dell’acqua va nell’agricoltura. Non si può dare la colpa solo al governo, che di sicuro ne ha: una piccola parte dei guadagni della popolazione può essere utilizzata per innovare i metodi di irrigazione e dare un contributo per arginare la crisi. Invece le persone fanno nulla e quando il lago si secca si lamentano. Stiamo diventando sempre più irresponsabili ed egoisti, incolpiamo sempre gli altri, ma ognuno di noi ha una responsabilità. Dobbiamo avere cura del nostro ambiente e deve essere una cura che viene dal cuore.
Ognuno di noi ha delle memorie d’infanzia legate a un paesaggio. Spero che questa storia possa evocare nelle persone lo stesso tipo di sentimenti che ha suscitato in me, per capire quanto siano preziosi, perché non riguardano solo un lago in Iran, ma appartengono a tutti noi
Nel progetto unisce vecchie foto di famiglia a quelle del lago scattate negli ultimi anni. Come ha scelto il tipo di narrazione visiva da dare alla sua storia? È stato un caso, le ho aggiunte da poco le immagini di famiglia. Un anno fa ero da mia mamma e stavamo guardando i vecchi album di foto, lo facciamo spesso, specialmente da quando non c’è più mia nonna. Ne abbiamo molti perché mio papà da giovane era appassionato di fotografia; non erano in tanti ad avere una macchina fotografica ai tempi. Lui aveva una piccola Zenit e ricordo che la portava sempre con sé, al parco, al lago, in gita, in città. E visto che fino a quando sono andata al college ogni weekend andavamo sul lago da mia nonna, e mio papà ci andava sempre anche prima che io nascessi, abbiamo molte foto. La cosa buffa è che ho sempre pensato fossero noiosissime e mi chiedevo perché le tenesse. Ma all’improvviso, quando ho ripreso il progetto per farne un libro, ho iniziato a guardare quegli scatti con un altro occhio, ho capito quanto fossero preziosi e che avrei potuto metterli vicino ai miei. Fu una sorpresa vedere come fossero cambiati i luoghi nel tempo. Tra le foto d’epoca c’è anche qualche scatto fatto da mio zio, che con le sue barche portava in giro i turisti sul lago. Ci sono i miei parenti, i turisti che fanno il bagno, gli ospiti del nonno. Lui aveva un motel, ma da quindici anni è in rovina: l’aveva costruito la famiglia di mia mamma a mani nude. In estate lui viveva lì per tre mesi, adorava parlare con i suoi clienti, gli sconosciuti e gli stranieri. A volte, se non c’erano camere libere nella guesthouse, li portava a casa con sé. Purtroppo, di anno in anno, quando apriva la stagione, in aprile, venivano sempre meno persone. Una delle ultime estati erano solo quattro, quella dopo, nessuna.
In molti scatti sembra che i colori siano evaporati insieme all’acqua e illuminati dalle distese di sale. Il lago salato è molto luminoso, volevo dare la sensazione delle pennellate di un acquerello, per quello ho scelto quei colori. In realtà, un anno prima, avevo iniziato a scattare le immagini in bianco e nero perché mi piaceva, lo usavano fotografi più esperti in città. Ero al mio primo progetto, mi sono formata da sola, quindi avevo bisogno di sperimentare, perché ai tempi lavoravo full time per un’azienda di telecomunicazioni, ho una laurea in scienze informatiche. Foto dopo foto, mi sono resa conto che le mie memorie di bambina non erano affatto in bianco e nero, erano piene dei colori di quel paesaggio, di mia nonna, e volevo tramettere quelle emozioni.
Che ruolo ha il sale nel racconto? Per me è la purificazione. Non c’è nulla di scientifico, certo, ma ci sono molte credenze e leggende sui poteri del sale del lago Urmia. Ogni volta che stavamo male, per qualsiasi motivo, mia nonna ci mandava a nuotare nel lago e, davvero, funzionava. L’acqua, per lei, era sempre la cura, e anche per me è lo stesso. Anche quando vado al villaggio, magari sono di pessimo umore e ho pensieri perché in Iran stiamo passando un periodo difficile a causa della crisi economica. Quando vado lì e non c’è nessuno per me è come una terapia, è un luogo remoto e speciale. Per me è il posto dove scappare, non c’è più il lago ma c’è un deserto di sale; adoro lo scricchiolio che sento sotto i piedi mentre cammino.
Cos’è per lei la fotografia? Per me era libertà: ho iniziato a viaggiare di più, a parlare di più con le persone, a vedere i lavori degli altri, che per molte donne qui era più difficile. Non è stato facile perché la mia famiglia, benché mio papà mi avesse regalato la macchina fotografica e non fosse un conservatore, i miei genitori comunque obbedivano alle regole sociali, non volevano che andassi da sola in posti molto distanti. Io lo facevo di nascosto, mi alzavo alle cinque. Nessuno mi ha incoraggiata, anzi mi chiedevano perché perdessi tempo con la fotografia, mi dicevano: “Hai un già un buon lavoro, così metti a rischio la tua vita”. Molte volte si accorgevano che non ero andata al lago perché tornavo la sera tardi, c’era traffico a tornare dalle città, erano arrabbiati con me, ma nulla di tutto ciò mi ha mai scoraggiata dal seguire la mia passione. Adesso hanno cambiato idea, e sono anche felici che io abbia fatto rivivere la memoria di mia nonna. Era una donna speciale, la più coraggiosa, l’unica che teneva sempre testa agli uomini. Era nata nella miseria, aveva tirato su suo fratello minore lavorando come cuoca nelle case. Io vorrei essere come lei, per questo non ho mai obbedito a nessuno che volesse fermarmi dal fare ciò che amo.
Silvia Criara
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Silvia Criara – Giornalista professionista, nata a Milano. A 5 anni chiede in regalo una piscina per le bambole, ma non la riceve. Così ha un’illuminazione, prende un cassetto di legno da un mobile e lo riempie di acqua per tuffarci le sue Barbie. Da quel momento non smette mai di seguire le idee e decide di raccontare chi porta avanti le più coraggiose per promuovere i diritti sociali, attraverso l’arte contemporanea, la fotografia, la cultura e il design. Storie di resistenza creativa che va a scoprire in giro per il mondo. Sogna molto, anche di giorno.